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Rinchiusa in un’accogliente libreria locale in una grigia domenica pomeriggio, ascoltavo con assonnata ammirazione i clienti che discutevano sull’intimità in tutte le sue diverse forme.
Non riesco a fotografare una persona finché non percepisco un legame o un interesse comune; dobbiamo trovarci interessanti l’un l’altra, il rapporto non può essere forzato né artefatto.
Quando lavoro, la durata del servizio è soggetta a variazioni, e la pressione di raggiungere un legame sincero è spesso opprimente. Quando lavoro, non ho regole; non ho molte opportunità di conoscere davvero i soggetti che ritraggo; allo stesso modo, esserne consapevole mi porta ad accelerare il tutto, evitando anche di scambiare quattro chiacchiere.
Ricordo di aver sentito delle voci secondo cui Mapplethorpe era solito aggirarsi nei pressi del suo studio, fotografando i suoi soggetti come un cacciatore mentre conversava con loro. Mi chiedo ancora di che cosa parlassero mentre teneva fermamente il dito sul pulsante di scatto, attento al momento decisivo.
Quindi cos’è l’intimità nella fotografia, e come può esistere? Per me un’immagine deve suscitare delle emozioni e, perché ciò accada, un soggetto ha bisogno di essere presente – (non per forza letteralmente). L’essenza o l’atmosfera di un’immagine dipendono dalla tensione e, spesso, le troviamo nel potere del rapporto tra artista e soggetto.
In un certo senso, tutti noi desideriamo ardentemente stabilire un contatto con qualcuno. Sono attratta dalle relazioni umane e dal loro studio; probabilmente, è questo il motivo per cui cerco in tutti i modi di fotografare quelli che conosco. Il mistero di uno sconosciuto è molto più seducente. Mi piace disfare tutto e scoprire il modo in cui le persone si rivelano.