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Da quando è morto agli inizi di gennaio, penso spesso a John Berger. Alcuni dicono che una luce se n’è andata dal mondo; è andata via, mi chiedo, o si è soltanto spostata?
Ogni sereno, freddo pomeriggio guardo la stessa luce che si arrampica lentamente sulla mia libreria, nella nostra casa che dà su Wellfleet Harbor, a Cape Cod. Al tramonto, la luce si posa sullo scaffale in alto – su Here is Where We Meet, A Fortunate Man, Ways of Seeing e gli altri libri di Berger nella vasta libreria del mio defunto suocero – brillando per un surreale momento, rossa, prima di svanire.
Preparandomi al viaggio in Italia previsto per questa primavera, leggo un passaggio che Berger scrisse all’incirca sessanta anni fa sul modo di vedere di Giorgio Morandi:
“Una contemplazione così esclusiva, così silenziosa, da convincerci che nient’altro, se non l’amata luce di Morandi, potrebbe in qualche modo cadere sul tavolo o sullo scaffale… [il pittore] permette alla stessa luce di cadere sui suoi preziosi, eccentrici averi, allo stesso modo in cui cade sull’Italia, fuori”
È da più di vent’anni che sono attratta dai dipinti di Morandi – sin dal mio primo viaggio in Italia. La poetessa che è in me prova piacere nel vedere come a volte le sue nature morte facciano rima con i suoi paesaggi; per esempio, in questi due dipinti amo il modo in cui le bottiglie quadrate fanno eco alle case quadrate – e il modo in cui combaciano la loro tavolozza smorzata e la luce delicata. E più guardi attentamente, più questa fila di bottiglie sembra essere un paesaggio in sé, di se stesso. È come se le nature morte di Morandi, prese insieme, tracciassero una specie di mappa del suo paesaggio immaginativo: un mondo a luci soffuse, sobrio, eppure ampiamente contemplativo, illuminato dal suo sguardo meditativo (Berger lo chiama “monastico”) e acceso dalla stessa luce sommessa mente cade sulla sua amata Bologna, da cui raramente si allontanava. In definitiva, forse ciò che sto cercando di descrivere è il confine immaginativo dell’arte – quello spazio poetico in cui il dipinto o la fotografia o la sintonia esiste tra il paesaggio interiore di un artista e il mondo esterno che lui o lei abita, interamente acceso dalla stessa luce.
Pertanto è comprensibile che, spesso, debba essere un poeta – o un collega della stessa disciplina (Berger era sia poeta che pittore, nonché saggista e romanziere) – a cogliere il confine immaginativo di un altro artista, a tracciarne la geografia particolare, l’astratto andamento meteorologico, il gioco di luci. Una profonda amicizia può anche essere illuminante: una volta, il poeta Guy Davenport ha scritto sul suo amico fotografo Ralph Eugene Meatyard – entrambi vivevano a Lexington, nel Kentucky:
“Per tutto il giorno ho osservato Gene aggirarsi tra le rovine di Whitehall mentre scattava foto con impegno, come un operatore di cinegiornale nel bel mezzo di una battaglia. La vecchia casa era quieta e silenziosa come l’eternità; per Gene era effimera nei suoi mutamenti di luci e ombre, come una falena inquieta”
Mentre l’ultimo raggio di luce svanisce, allungo il braccio per accendere la lampada da tavolo. Felice di essere a casa dopo un frenetico autunno passato a viaggiare oltreoceano, mi viene in mente ciò che Igor Stravinskij disse una volta al suo amico americano, il direttore d’orchestra e scrittore Robert Craft, a proposito del riuscire a dormire profondamente in qualsiasi parte del mondo, a prescindere da quanto estranea o remota fosse la stanza d’albergo:
“La notte riesco a dormire solo se un raggio di luce entra nella mia stanza da un armadio o da una stanza attigua”
Il compositore russo definì questa luce familiare il suo “cordone ombelicale dell’illuminazione”. Gli ricordava la luce della strada fuori dalla finestra della sua stanza, sul Canale di Kryukov, a San Pietroburgo, dov’era cresciuto:
“[Questa stessa luce] mi consente, a settantotto anni, di rientrare nel mondo della sicurezza e della clausura che conoscevo quando avevo sette, otto anni”