Naatsiiat

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© Piergiorgio Casotti
© Piergiorgio Casotti

Barco, Italia, 1 December 2016

La scorsa notte, era quasi mezzanotte, stavo scendendo dalle colline reggiane dove sto imparando a scolpire, perché da un po’ di tempo, che sono poi forse un paio d’anni, sento l’impellente necessità fisica (e mentale – ma una tira dietro l’altra) di usare le mani, sporcarle, toccare materia, sentire di essere vivo, creare qualcosa che sopravviva a un improvviso blackout o all’obsolescenza tecnologica.
Qualcosa che vada oltre il pixel.

© Piergiorgio Casotti
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Più mi guardo e più mi rendo conto di andare in retromarcia, quasi scappando dall’evoluzione della società, che sempre meno riesco a seguire e dalle cui interferenze mi rendo conto sono spesso involontariamente condizionato. E mi ritrovo sempre più, fisicamente intendo, in ritirata. Se mi staccassi dal corpo e potessi osservare le mie abitudini, i comportamenti, le tendenze di spirito e del subconscio, beh, senza alcun dubbio vedrei una persona che anno dopo anno si sta ritirando e nascondendo nelle montagne. Non quelle note, battute, turistiche, ma i boschi, le alte vette, le gole rocciose, a Casanova, dove un tempo c’era anche un convento ma che oggi, invece, il “Leone” abita solitario. Vago in questi luoghi cercando la solitudine come ancora di salvezza, come aria pulita oltre una coltre padana di nebbia inquinata, come unica via per schermarmi dal rumore bianco della società umana.

© Piergiorgio Casotti
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La notte scorsa scendevo piano, l’aria era gelida, il vento non forte ti tagliava però a metà, ti svegliava dal torpore mentale accumulato nella quotidianità. Scendevo piano, finestrino semiaperto per approfittare di quella vista e di quel clima quasi perfetto (per me) a fare andare la fantasia e i sogni e, perché no?, anche le utopie. Utopie che ho rincorso e che adesso mi fanno sorridere e anche un po’ incazzare…

Scendevo e sorridevo, respiravo piano, rilassato, profondamente, perché già sapevo che non ne avrei avuto abbastanza e cercavo a tutti i costi di prendere tutto quello che si poteva prendere quella sera, anche rubandone un po’.

© Piergiorgio Casotti
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Scendevo lento, sereno e dietro ad una curva, così preso, improvvisamente vedo un animale sul ciglio pendente della strada. Immediatamente il mio cervello crea la visione e l’idea di un capriolo, avvistamento così comune la notte per quelle strade. Tutto ciò dura una frazione di secondo e la frazione dopo, invece, capisco che in realtà quello che sto osservando è un lupo. Era la prima volta nella mia vita. Resto immobilizzato, non dalla paura, anzi, ma da un’esplosione interna di emozioni; un calore che sale improvviso e inaspettato. Rallento fino a fermarmi con la macchina. Il lupo era grande, o così la mia emozione me lo faceva vedere; ma no era davvero grande. Lo osservo, un piccolo brivido di paura si fa spazio in me quando il lupo si gira nella mia direzione, si avvicina con sicurezza alla macchina e mi passa di fianco. Sono rimasto fermo per un tempo indefinito, probabilmente pochi lunghi secondi, e quella cosa che avrei voluto rubare quella notte, quell’ingordigia di emozioni e sensazioni me la sono portata via.

© Piergiorgio Casotti
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Naatsiiat è una parola groenlandese che letteralmente significa “qualcosa per cui uno aspetta molto tempo affinché cresca” e che poi è il termine groenlandese per patata. Riuscite a capire, a coglierne la forza distruttiva? Una visione prospettica completamente nuova, la relazione tra i groenlandesi e la vita. Che distrugge la nostra certezza occidentale, appunto.

Il tempo, il ritmo non imposto, l’abbandonarsi con accettazione alla volontà naturale. Accettare una prospettiva futura che non vada oltre qualche giorno, se va bene ed è estate, perché invece in inverno l’abbandono è totale e la quotidianità è dettata dalle volontà del vento, del ghiaccio e della neve.

Questa si chiama ispirazione per me. Per la mia fotografia.

Aputsiaq (“fiocco di neve”)

About Piergiorgio Casotti

Alternative TextNato nel 1972 e laureato in Economia, sono sempre stato attratto dalle dinamiche degli esseri umani; ho scoperto la fotografia come mezzo che mi permette di esplorare contemporaneamente sia il mondo che me stesso: legame diventato indissolubile da allora. Le mie fotografie presentano sempre una parte di me; si tratta di scoprire la mia intimità, affrontare le mie paure vivendo altri mondi e vite. Uso lo stesso metodo empatico con la mia vita e le mie fotografie: estirpare il concetto di “bello” o “brutto” e, al contrario, andare alla ricerca di immagini che possano essere “vissute”, non solo “guardate”. Cerco di creare progetti complessi proprio per esprimere la complessità del mondo e della vita: immagini e testi, video e musica; cerco di rompere gli schemi e allargare gli orizzonti; vorrei raccontare storie, stati mentali ed esperienze che hanno poco a che fare con gli standard estetici; vorrei raccontare vite che, anche attraverso il linguaggio della fotografia, graffiano la superficie delle cose, cercando – e a volte rivelando – ciò che l’occhio non vede.