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A volte una partenza è un inizio e una fine. A volte una partenza è inaspettata, non pianificata, non desiderata. A volte una partenza non è solo la tua. A volte, il treno che lascia la stazione lo vedi negli occhi di qualcun altro.
Ogni volta che devo iniziare un libro, parto per un nuovo viaggio. Sono solo una passeggera senza biglietto. Non so dove mi porterà. Non so come o quando finirà. Ciò che so per certo è che ogni nuovo libro mi chiede l’impossibile: cominciare di nuovo, partire per luoghi sconosciuti con quei familiari compagni di viaggio – dubbio, fiducia e paura. E il punto di partenza di ogni libro muta sotto tutti gli aspetti tranne uno: spesso, l’inizio appare di punto in bianco – lo sportello aperto di una macchina, un ricordo, il verso di una poesia, un’immagine sorprendente, surreale o echeggiante, una fotografia che torno sempre a guardare, l’insegna “Partenza” all’aeroporto di Milano…
La scorsa estate, dopo essere stata a Milano, ho scoperto il germe di un nuovo libro. Immagino che non dovrei essere sorpresa che sia accaduto in Italia, il luogo che ha ispirato il primo libro di fotografia, The Pencil of Nature. Tuttavia, la fonte visiva della mia ispirazione non è stato il pittoresco Lago di Como, come successe a Henry Fox Talbot, ma uno specchio d’acqua ancora più ordinario – il Po di tutti i giorni, il fiume più lungo del paese. Scorrendo attraverso la valle agricola che porta il suo nome, il Po nutre quei preziosi campi di riso da cui viene il risotto.
Attraversando il Po, ho pensato a Luigi Ghirri e alle sue foto di queste terre coltivate che chiamava casa. In questo tardo progetto, Ghirri fu attratto dallo smarrirsi nel paesaggio e dal mistero e, per dirla in modo appropriato, lui stesso se ne è lasciato uno dietro: un ultimo rullino con la sua serie di case decadenti e di campi fertili della valle del Po nella sua provincia del Nord Italia, dove visse la maggior parte della sua vita; un rullino ancora non sviluppato al momento della sua morte, avvenuta all’improvviso per un infarto nel 1992, nella sua casa di Reggio Emilia. Mi piace pensare a queste ultime fotografie come a una specie di addio – tra queste, la foto di un uomo che scompare nella nebbia – specialmente se insieme a queste parole scritte nell’ultimo periodo:
“… alla fine, tutto ciò che sappiamo, raccontiamo e rappresentiamo non è altro che una crepa sulla superficie delle cose del paesaggio… in cui viviamo”
E in cui amiamo, aggiungerei, poiché Ghirri, ex perito agrario, stava registrando una specie di geografia dell’amore: “Ho guardato questi posti con affetto e amore, tentando di percepire un semplice e stupito sentimento d’appartenenza”. Accompagniamo Ghirri attraverso il punto di partenza del suo sguardo e, messe insieme, le sue fotografie formano un tipo di “cartografia imprecisa… del nostro paesaggio impossibile, privo di scale e senza un ordine geografico che possa orientarci”. Eppure, molto probabilmente, è anche la natura di questo stesso disorientamento – quest’offuscarsi di linee tra paesaggio interno ed esterno – che, paradossalmente, guida Ghirri e noi che ne seguiamo le orme:
“[Questo] groviglio di monumenti, luci, pensieri, oggetti, momenti e analogie forma i paesaggi della nostra mente; anche inconsciamente, noi li cerchiamo tutte le volte che guardiamo gli ampi spazi aperti da una finestra, come fossero punti su una bussola immaginaria che ci mostra una possibile direzione” annotò.
Nell’ultimo anno, ho pensato spesso al lavoro sulla valle del Po di Ghirri mentre rivisitavo le terre coltivate del Midwest, con le sue nebbiose pianure alluvionali ricche di ricordi e associazioni poetiche, dove io e mio padre siamo nati e dove la sua famiglia di quaccheri ha vissuto per generazioni. Spesso, quando ero piccola e vivevo in questa contea rurale dell’Indiana, accompagnavo mio padre, medico di campagna, alle visite a domicilio: dai contadini, di cui aveva fatto nascere i figli neonati, ma anche alle onoranze funebri, per dare l’addio a uno dei suoi pazienti. Purtroppo, tutto ciò che mi resta di quei viaggi è una fotografia che feci a mio padre, una Polaroid sbiadita – così annebbiata, che ciò che ne è rimasto sono il cielo e i contorni sfocati della sua borsa nera di medico, così come offuscata è la figura di mio padre, anziano. Con questa Polaroid sbiadita come guida – e i miei ricordi, quelli di mio padre e la mia mappa emotiva – ho cominciato a rievocare alcune delle sue visite a domicilio attraverso i campi di granturco e i paesini della contea di Rush. Lavoro principalmente di notte e la mattina presto – quando la maggior parte delle persone nasce (mio padre ha fatto nascere circa 2.000 bambini) e un’altra muore; ma è anche il momento in cui i ricordi s’intrecciano, a detta di Walter Benjamin, quando “ricordare è la trama; dimenticare, l’ordito”.
Prima di partire per il mio primo viaggio, ho riletto ciò che scrisse Paul Valéry a proposito del mistero degli inizi, il che mi ha portato a ripercorrere un finale in particolare prima di addormentarmi, “Fallen Apples”, l’ultima fotografia di My Dakota: “Il primo verso di una poesia equivale a trovare un frutto caduto per terra che non avevi mai visto prima. Il compito del poeta è quello di creare l’albero da cui questo frutto è caduto”.
In un sonno agitato, ho sognato il platano più grande che avessi visto – a parte quello di una vecchia fotografia scattata nei pressi della regione rurale in cui sono nata – un albero che sembrava un paesaggio in sé, di se stesso.