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Kulusuk, 22 luglio 2016
Profanazione dell’innocenza. Esseri umani vestiti tutti uguali scendono imbambolati la scaletta dell’aereo, protetti da occhi digitali. La TV, il gate nel quale risiede e vive la realtà, lo schermo di casa qui materializzato, traslato attraverso schermi di tablet o camere digitali.
Tutto, basta non usare i propri occhi.
Lo schermo che rassicura e protegge dall’ignoto e dal selvaggio, il passepartout a un alibi per un’invasione (senza colpa), a un mondo di umani diversi.
La garanzia (almeno due anni on-site) di avere impressa per sempre la terra lontana attraverso strati di silicio che si manifestano in puntini, anzi minuscoli quadratini digitali che creano la realtà, non la sostituiscono ma diventano essi stessi LA realtà.
Non servono più la mente, il cervello, gli utensili umanistici. Ora non occorre affrontare più nulla sprovvisti di protezione e filtri emozionali.
Occorre registrare, NON vivere il momento. Bisogna, si rivela essenziale, lasciare una traccia (di essere stati qua o là). Un supermarket dell’avventura prêt-à-porter usa e getta, che fluttua come le stagioni di moda, evanescenti e pericolosamente transitorie.
Tutto ciò – questi pensieri e forse altro – è passato nella mia mente in una frazione di secondo. Tutto ciò che ho visto mi spaventa. E forse ancor di più gli sviluppi futuri, ormai inevitabili. L’inquinamento umano, la chiara percezione dell’indifferenza con cui questi corpi vengono aviotrasportati (spesso a loro critica insaputa sensoriale) e affrontano queste terre “sacre”, pure, innocenti, solitarie e pacate. Terre che esigono silenzio, pazienza, sussurri e non urla, pensieri più che parole.
È inevitabile, e con la forza d’urto di un fulmine mi si materializza davanti agli occhi il capitolo finale de Il mondo nuovo di Aldous Huxley. L’immagine di elicotteri stipati di curiosi cittadini ALFA, omologati in una vita e pensieri preordinati, che vogliono vedere John “il selvaggio”, prelevato dalla riserva indiana per un esperimento di “civilizzazione”; John, che reclamava solamente il diritto alla poesia, alla bontà, al peccato, al pericolo vero… il diritto «di essere infelice» secondo il “controllore” Mustafa.
«Odio la civiltà» – disse prima di rifugiarsi in un faro – «… mi ha avvelenato».
Mi chiedo cosa può aver portato, e sempre più portare, gruppi informi mononucleici di cinesi qui, alla fine del mondo, nella Groenlandia dell’est, se non un goffo tentativo di processo di occidentalizzazione (un’auto/nuova rivoluzione culturale). Fare qualcosa che probabilmente non appartiene loro, ma che hanno visto fare all’occidente e quindi da ripetere (asetticamente, acriticamente).
Un nuovo souvenir, una X sul mappamondo – digitale – la forza di un post, di un selfie su Facebook. Tutto dura un attimo, quei pochi secondi necessari a guardare una fotografia, un like, e poi l’oblio o vaghe memorie di qualcosa che forse era ricordo piacevole.
O forse una rivincita del subconscio nei confronti dell’altra metà dell’umanità («che la rivoluzione culturale non è stata poi così male! Ci ha resi liberi e proiettati nel mondo»), un senso di inferiorità diffusa a livello inconscio («vedete, la rivoluzione non ci ha distrutto») che bisogna dimostrare errata.
Le donne, con cappellini da passeggio da centro commerciale abbinati ad abbigliamenti hi-tech normalmente proposti dai commessi per cime di 8.000 metri (ma qui d’estate si gira con pile leggero, jeans e scarpe – quelle le concedo da trekking) si animano improvvisamente, isteriche, dopo aver scoperto la più importante delle prove di appartenenza. Fanno la fila per avere il timbro della Groenlandia sul passaporto. Isteria neuronale di massa durante l’imbarco, quanta invidia potrà suscitare un timbro al ritorno a casa, durante le cene con proiezioni su maxi schermi al plasma – meglio se ricurvi.
Lo ammetto, il timbro sul passaporto l’ho voluto anch’io per un momento, forse attirato da quella calamitante energia di massa, come una forza magnetica che ti porta al cameratismo e alla conformazione. L’ho pensato, l’ho desiderato per alcuni secondi, poi, ripresomi, sono uscito dal gate velocemente per non avere più rimpianti. Affinché qualcosa esista, occorre una prova da mostrare. Non deve esistere per te, ma per gli altri.
Iceberg, come migranti, come navi, come satelliti lasciati senza più guida all’ignoto spazio profondo, si avventurano solitari al largo nelle acque nere e insidiose; si sciolgono lentamente, senza urlare, rassegnati, con un sussurro, senza disturbare, prima ancora della vista della costa islandese.
Tra l’indifferenza, verso un oblio eterno.
Terra alla terra, acqua all’acqua.
Aakkunnaarpoq – (v) not to melt anymore, not to bleed anymore.