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Sono deliziata e onorata che Teju Cole abbia preso parte alla prima conversazione per Tre Domande. Scrittore e fotografo, Teju ha la mia stessa passione di combinare testo e immagini nei suoi lavori, sia nei suoi libri che nelle mostre – tra cui Punto d’Ombra (giugno 2016), l’edizione italiana del suo nuovo Blind Spot (giugno 2017) – nonché sul suo profilo Instagram, una cui selezione dei suoi ultimi scatti, Black Paper, verrà presentata a giugno alla Steven Kasher Gallery, a New York, insieme al suo Blind Spot.
Inoltre, Teju, che è anche storico dell’arte, professore e critico fotografico per il New York Times Magazine, condivide il mio stesso stile di vita peripatetico. Anche se viviamo entrambi a Brooklyn, abbiamo impiegato qualche mese per completare questo scambio di email, nel bel mezzo di una serie di viaggi internazionali che ci hanno tenuti impegnati e che, fortunatamente, sono riusciti a portarci a Milano, quando Punto d’Ombra è stato esposto la scorsa estate a Forma Meravigli, una mostra curata da Alessandra Mauro – Rebecca Norris Webb (RNW)
RNW, Milano, 10 giugno 2016
Sembra appropriato che il tuo libro di scritti e fotografie, Punto d’Ombra, venga pubblicato ed esposto in Italia prima ancora che esca la versione inglese, Blind Spot. Poiché, come ha osservato una volta Italo Calvino:
“C’è una vocazione ben radicata nella letteratura italiana, tramandata da Dante a Galileo: la nozione del lavoro letterario concepito come una mappa del mondo e del conoscibile, dello scrivere guidati da una sete della conoscenza che, a turno, può occuparsi di filosofia naturale o di un’osservazione visionaria e trasfigurante”.
E questa nozione potrebbe facilmente essere estesa al lavoro di Luigi Ghirri, questo agrimensore diventato fotografo e scrittore, un uomo attratto dalle immagini di globi e mappe, che definì la sua fotografia una “cartografia imprecisa… del nostro paesaggio possibile”.
Hai intitolato la tua postfazione di Punto d’Ombra “Una mappa del mondo”, e le tue fotografie sono state fatte su sei continenti. Raccontami qualcosa in più a proposito della geografia e delle mappe nel tuo lavoro, nonché dell’influenza o ispirazione di Calvino, Ghirri e altri artisti italiani che hanno abbracciato questa nozione del lavoro concepito come mappa del mondo.
TEJU COLE (TC), Brooklyn, 27 luglio 2016
Questa citazione di Calvino è meravigliosa e mi è nuova. Mentre ti rispondo guardo la mia agenda. Quando mi hai scritto ero a Brooklyn, e adesso, settimane dopo, sono tornato e ti rispondo vergognosamente in ritardo. Nel frattempo, la mappa è stata la mia vita. Sono stato in Italia, Malta ed Etiopia, guardando le coordinate del GPS, seguendo la linea di costa mentre l’aereo si avvicinava. L’Italia è stata la più intensa di tutti, un paese che ho visitato per la prima volta circa otto anni fa, ma in cui sono tornato molte volte. (Al contrario, vado in Belgio, Olanda e Germania per motivi di studio dalla fine degli anni Novanta. Mi sono molto più familiari.) Durante questo viaggio, sono stato a Roma e a Napoli, in Sicilia, Lombardia e Toscana.
Da tempo preoccupato che l’Italia potesse essere un cliché, lì ho scoperto ciò che può dirmi direttamente la luce, ho imparato a vedere la storia così come la modernità imperfetta. E la tua domanda sostiene un’intuizione precisa: la mia interazione con l’Italia, il mio amore crescente per questo paese, è fortemente legato alla fotografia. È stata una coincidenza che io abbia scritto un articolo su Luigi Ghirri mentre ero in Italia? O che abbia vissuto i suoi paesaggi attraverso la mia propria visione, ma anche attraverso la visione di Ghirri e Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi e Gabriele Basilico? O che questi artisti siano tutti particolarmente sensibili alla terra, che siano, in un certo senso, tutto cartografi fotografici? O che la mia prima grande mostra individuale si sia tenuta in Italia e che la mia prima monografia fotografica fosse in italiano? Presumo che questo luogo mi abbia sedotto, persuaso. Alla fine, ciò che gli artisti fanno per noi è simile a ciò che i luoghi fanno per noi: forniscono una chiave di lettura di ciò che è rimasto latente per tutto il tempo dentro di noi. L’Italia sta diventando uno dei miei luoghi speciali, uno dei miei luoghi dell’autoconsapevolezza.
Ora, io so che l’Italia ha un significato speciale anche per te. I tuoi lavori sono stati esposti lì, ci vai spesso. Ma permettimi di ampliare leggermente questa domanda e chiederti qual è il ruolo della terra nel tuo lavoro. La tua non è proprio una fotografia paesaggistica convenzionale, ma ho visto alcune tue foto recenti dell’Indiana, e mi sembrano permeate di un sentimento di terra e appartenenza. Io non mi sento completamente a casa in nessun paesaggio: l’Italia fa una cosa, la Nigeria ne fa un’altra, la Svizzera un’altra ancora. E per quanto riguarda te, invece? L’Indiana è un luogo di riposo? E l’Italia? Che significato ha per te il paesaggio da un punto di vista personale e fotografico?
RNW, Brooklyn, 30 luglio 2016
Alcuni paesaggi – in particolar modo i luoghi in cui ho vissuto e che ho spesso visitato, come l’Italia – per me sono un richiamo. A volte è perché suscitano ricordi o associazioni poetiche. A volte è la qualità della luce. A volte è qualcosa di troppo vago per essere compreso, almeno all’inizio. Ciò che so per certo è che, quando un paesaggio mi chiama, io lo seguo. Negli anni, ho imparato ad avere fede in questo metodo di lavoro: fotografo – e a volte scrivo – spontaneamente, d’istinto e pazientemente nel paesaggio, accettando che mi ci potrebbero volere mesi o addirittura anni prima di poter afferrare completamente ciò che un paesaggio sta cercando di dirmi. È un processo pieno di dubbi e frustrazione. Quindi, per rafforzare il mio umore, ripercorro spesso il lavoro di artisti che condividono una simile ossessione per la geografia, tipo Luigi Ghirri, William Christenberry o Elizabeth Bishop, una poetessa che apprezziamo entrambi. Recentemente mi sono imbattuta in questo meraviglioso aneddoto sulla Bishop, quando era una giovane poetessa. Al termine di un lungo viaggio in Italia, insistette che portasse tanti piccoli gufi con sé durante il ritorno a casa. Posso solo immaginare la cabina della Bishop con quei gufi che oscillavano sui loro trespoli, al ritmo dell’Oceano Atlantico. Non mi sorprende che i gufi – di cui uno era un regalo per la sua amica e mentore Marianne Moore – furono sequestrati dal servizio doganale degli Stati Uniti. Ma non è difficile comprendere il suo impulso, poiché non desideriamo tutti tornare dai nostri viaggi con qualcosa di riecheggiante, che sia liricamente colmo di un luogo che risveglia qualcosa di profondo dentro di noi?
Ultimamente ho ripercorso un paesaggio che mi ricorda spesso le fotografie dell’agricola Valle del Po di Ghirri. Ho rievocato l’itinerario delle visite a domicilio di mio padre, medico di campagna, attraverso i terreni coltivati dell’Indiana dove siamo nati entrambi. Seguendo i suoi ritmi di lavoro, fotografo spesso di notte o la mattina presto, quando la maggior parte delle persone viene al mondo e l’altra maggior parte lo abbandona. Guidando mezzo addormentata attraverso questa campagna che ondeggia dolcemente, mi ritrovo attratta, ancora e ancora, da alcune immagini – ponti coperti, pianure alluvionali e, in particolare, dai sicomori, i cui corpi lentigginosi mi ricordano mio padre. Poiché questo lavoro in corso, Night Calls – sto lentamente e dolorosamente imparando ad accettare – è il mio modo di venire a patti con la perdita inevitabile del mio gentile, scientifico e acuto padre, un uomo tranquillo che mi ha insegnato tanto a proposito della vita, della morte e dell’amore del mondo naturale. Forse in modo appropriato, Night Calls si è evoluto in una specie di addio a lui, sinuoso come il Big Blue River lungo cui viaggiavamo spesso, persistente come molti addii riluttanti.
Una volta Italo Calvino ha scritto che ci sono due tipi di processo creativo – “quello che comincia con la parola e arriva all’immagine visiva, e quello che comincia con l’immagine visiva e arriva all’espressione verbale”. Per Calvino veniva prima l’immagine, innescando un racconto o un romanzo. Come puoi vedere in Night Calls – ed è stato lo stesso per My Dakota – le mie fotografie tendono a dare l’esempio, e le parole seguono, prima o poi. Com’è per te? Con Punto d’Ombra di solito venivano prima le parole o le fotografie? Oppure lavoravi in entrambi i modi? O forse utilizzi una mappa completamente diversa per farti strada in questo nuovo mondo del lavoro che intreccia le fotografie e le parole di un autore?
TC, Brooklyn, 4 agosto 2016
Per prima cosa devo farti una confessione: non ho mai provato a viaggiare portando con me dei gufi! E mi piace non solo che Elizabeth Bishop lo facesse, ma che quando ascolti la storia, questa non sia per niente sorprendente. E penso che, quando lavoriamo a un progetto, ci siano momenti di responsabilità o scintille o sublimità che fanno davvero risuonare gli altri momenti. Per quanto mi riguarda, uno di quei momenti è stata una fotografia che ho fatto sul Lago Lemiano: bandierine azzurre legate da reti che svolazzavano al vento, con lo sfondo del lago azzurro e del cielo azzurro. Era come se il paesaggio si fosse aperto in modo molto importante al mio grande progetto. So che questa è una fotografia che ti piace particolarmente, e credo sia perché ti rendi conto che fa scattare qualcosa. Sento che in Night Calls il paesaggio si apre davvero con questa unione fantasiosa dei sicomori chiazzati con le lentiggini di tuo padre. È un’immagine carica, immensamente commovente ma affatto banale. È ciò che Barthes definirebbe punctum.
Ad ogni modo, rispondo alla tua domanda: non so cosa venga prima. Ho un archivio mentale di foto possibili e uno reale di foto che esistono già. Ho anche alcuni frammenti che ho già buttato giù, e ho nozioni di ciò che potrei scrivere. In qualche modo, tutto questo materiale visivo e letterario circola nella mia orbita mentale. (Quello è un luogo che si affolla facilmente.) Poi, il resto è una specie di passeggiata nello spazio. Unisco un frammento letterario a una foto, faccio sì che un’altra foto tiri fuori delle parole non scritte, prendo una citazione ed esco a fare una passeggiata con la mia macchina fotografica. Quando ce ne sono un paio che potrebbero funzionare, le metto insieme con un click silenzioso, e poi, gentilmente, le tiro giù dall’orbita e le lascio cadere rapidamente sulla terra. È stato così con Punto d’Ombra, con una dozzina di paia. Sviluppando quel senso di cosa appartiene a cosa, cosa incoraggia il ritmo preesistente. E ora che è finito e diventato un libro coerente, essendoci entrato così profondamente e in modo appagante, mi sento un po’ perso. Adesso è tempo di scoprire quale sarà il mio prossimo progetto.
Teju Cole è scrittore, storico dell’arte e fotografo. È critico fotografico del New York Times Magazine e Distinguished Writer in Residence al Bard College. Le edizioni italiane del suo lavoro includono Città aperta (Open City), Ogni giorno è per il padre (Every Day is for the Thief), e Punto d’Ombra (Blind Spot). Il prossimo anno Contrasto pubblicherà un’edizione italiana dei suoi saggi (Known and Strange Things). Il suo account Instagram è qui.